Recensioni

profilo di Venino Naldi

Alain Jouffroy (1960)

Il est toujours des exceptions à la règle. Naldi en est une, si l’on peut considerer comme “règle” la recherche de volumes abstraits ou l’exploration du fantastique industriel (de la mecanique à la sience-fiction) qui caracterise l’essentiel dela sculpture contemporaine. Tout se passe pour Naldi comme si le monde moderne n’etait passe essentiellement differente de celui des Etrusques, ou de Mycène. Ses divinitès semblent reincarner les images traditionelles de la feconditè, mais d’une manière si fidèle, si respectueuse, qu’on le dirait soucieux seulement de perpetuèr l’esprit ènigmatique qui a creè la première sculpture du monde: la Venus de L’espugne, et dans toutes civilizations arcaiques, les images de la Terre-Mère. Ses divinitès, cependant, ont ceci de particulier qu’elles coincident avec ce nèo-arcaisme subjectif dont parle Victor Brainer. Nulle rèfèrence precise ou rigoureuse à des symboliques dèja ètablies, en elles mais le seul besoin de rejoindre ce qui se caque derrière toute symbolique.
Elles n’èsplicement passe le mystère, elles le signifient.

Leur hèrmètisme semble involontaire; je ne sais quel accent naìveté veritable, dans le dètail d’expression du visage, ou dans l’ornementation et les parures, leur confère cette innocence que tant d’artistes en mal d’inspiration empruntent aujourd’hui aux productions de l’Art brut. On imagine volontier une maison de campagne transformèe en “temple” par ces scuptures, où le gènie paìen se retrouve mysterièusemente intact.

Une question: les terres-quites de Naldi n’annullent elles passe, par leur ingènuitè même, vingt siècles de christianisme?

Elles font en tout cas comme si la Vierge n’avait jamais existè et cèlèbrent à leur manière l’indomptable magnètisme animal dont la femme demeure rèceptacle et gardienne.


Giorgio Kaisserlian (1962)

Quello che colpisce subito negli interni che Venino Naldi allestisce nei suoi dipinti è la qualità dell’evocazione.

Essi possono sembrare analoghi a quelli di alcuni fra i giovani pittori più significativi d’oggi i quali spesso in un interno solo indicato da un vano di una finestra imbandiscono strane strutture in primo piano, assai anonime d’altronde, che vorrebbero indicare tutta l’alienazione dell’uomo d’oggi.

Gli interni di Naldi sono invece abitati da presenze singolari e misteriose, provviste di fascino e di calore.

Le sagome delle sue figure in primo piano potranno apparirci enigmatiche e farci ricordare talvolta alcune figure metafisiche o surrealiste: esse non ci appaiono però come proiezione psicologica e soggettiva di un io scontento di sè, che vorrebbe e non sa ancora ritrovare un’immagine Riconoscibile, bensì come delle apparizioni, nette, precise – accarezzate dalla luce che si diverte a proporre su di esse varie trame cromatiche, ove predominano degli azzurri assorti.

Ad insistere su queste immagini che finirà per trovare Venino Naldi?

Non ci permettiamo di anticipare la sua pittura futura, vorremmo solo ch’egli riuscisse a cogliere quelle presenze che maggiormente possono sollecitarlo domani, con quella decisione ch’egli mette oggi a proporci le sue immagini di sogno.

Foto di Venino Naldi ad una sua mostra

Renato Barilli (1963)

Naldi, come altri della sua età, sta seguendo un percorso che dall’informale, con cui ebbe inizio il suo lavoro consapevole, lo porta ad inoltrarsi sempre più in una situazione diversa, la situazione attualmente dominante che vede il trionfo di un nuovo spirito oggettivo. E come nel caso di molti altri lo strumento stilistico che permette a Naldi di seguire questo percorso senza brusche impennate è offerto dal surrealismo. Il surrealismo infatti si è manifestato storicamente con due volti: il volto Mirò, Masson, Gorky, ed il volto di De Chirico, Magritte, Tanguy. Il primo di questi punta tutto sul profilo mobile e sinuoso che è proprio dei fenomeni vitali; può dunque stare molto vicino ai segni, ai coaguli dell’informale, non negarli, ma intentato arricchirli di una significazione ambigua, di un riferimento non troppo precisato a corpi viventi. È stato questo il primo modo di tracciar qualche limite alla libertà estrema dell’informale. E si può notare infatti che Naldi è passato per questa fase. Ma poi egli non si è accontentato di questo minimo di definizione, la logica stessa del processo in atto lo ha portato a cercar di definire ulteriormente l’immagine. Ecco allora il suo accostarsi all’altro volto del surrealismo: una ripresa della lucidità visiva di un Tanguy, di un Magritte, magari con qualche incursione più in là, ad un Alberto Martini. Dopo tanto “non finito” ecco insomma riaffacciarsi il gusto per un “finito” meticoloso, per un’esecuzione che non lascia posto ad incertezze.

Non si può nascondere che in questa ripresa del surrealismo degli anni ’20 e ’30 ci possono essere gravi pericoli: si tratta di una strada che può portare alla costituzione di un mondo gratuito, di pura fantasia, chiuso e irraggiungibile nel cerchio della sua perfezione. E anche Naldi deve guardarsi a volte da questo possibile limite. D’altra parte, in tutto ciò sta anche un lato positivo: il proprio della situazione attuale, si è detto, è la fame di oggettività, il bisogno di tornare a raccontare le cose. Ma non si può tornare ad esse nei modi della vecchia tradizione figurativa, perché quei modi ormai consueti tendono a nasconderle, piuttosto che a riscoprirle. La lente aberrante, maniaca, a volte perfino diabolica fornita dal surrealismo risponde invece a questo compito di sbalzar gli oggetti fuori dalla capsula abitudinaria che suole rivestirli, li reintegra in tutta la loro durezza, li rende nuovamente taglienti e aggressivi.


Giorgio Kaisserlian (1965)

Il surrealismo ha proposto, soprattutto nelle sue ultime propaggini, il senso della figura inventata, quale essenza della pittura odierna.

Ed è quindi naturale che, nell’ambito di un post-surrealismo estroso e personale, molti giovani pittori facciano emergere nei loro lavori delle figure libere e cifrate.

Venino Naldi e Gianfranco Trucchia appartengono a quest’ordine di ricerche.

In Naldi predomina il senso della costruzione allo stato puro, cioè il rigore mentale che un meccanismo preciso esige per poter funzionare.

Di fronte ai suoi lavori si trova quella vertigine lucida che molti aspetti della vita contemporanea riescono a determinare nell’osservatore più smaliziato. Sembra proprio di essere qui giunti al momento in cui l’apprendista stregone ha ceduto l’iniziativa a meccanismi ch’egli stava concertando, e che essi si determinino ormai da soli, esautorando l’uomo che pur li aveva messi in opera.

È un mondo freddo e lucido, temibile e dai bagliori imprevedibili.

In Trucchia si noterà invece il prevalere di strutture istintive: le sue figure sono degli organismi elementari, come dei grumi di materia, che stanno per diventare dei personaggi.

È il regno di una vita istantanea, colta nel suo momento naturalista di emergenza, sebbene Trucchia non indulga a certo “naturalismo partecipato” che confonde tutto in un magma materico, convulso ed ossessivo.

Insistiamo su questo punto: in Trucchia l’affiorare di questi: grumi di personaggi è contemplato con lucida consapevolezza e distacco.

Questi due pittori attestano con il loro tenace lavoro uno stato attuale delle esperienze visive, orientato verso un pieno recupero della figura, oltre lo spazio magico del surrealismo.

È proprio da ricerche di questo tipo che attendiamo una nuova concretezza dell’immagine e nuovi spunti poetici.

Venino Naldi davanti una sua opera esposta

Francesco Arcangeli (1965)


Tra i pochissimi artisti italiani che tendono esplicitamente ad una figurazione fantastico-surreale, si deve doverosamente collocare il bolognese Venino Naldi, che da anni tenta una sua versione particolare dei fantasmi interiori che agitano e sommuovono la coscienza e i sonni dell’uomo moderno. Naldi, attualmente preso dalla problematica ossessionante del macchinismo, ha iniziato la propria opera consapevole d’artista, ottenendo i suoi primi risultati autonomi attorno al 1958, con singolari creazioni di gusto neo-arcaico.

Alan Jouffroy , che ha segnalato questa particolare fase dell’ artista fin dai suoi primi passi sulla via dell’arte fantastica, nota appunto come le composizioni plastiche del giovane artista bolognese, coincidano per molti aspetti , con il neo-arcaismo- soggettivo sostenuto da Victor Brauner, il maestro del secondo surrealismo che oggi viene apprezzato anche in Italia, e segnala ancora come le immagini plasmate da Naldi nella terracotta reincarnino simboli e rappresentazioni tradizionali della fecondità, proprio come nelle antiche sculture micenee ed etrusche.

Ma se queste parentele sono indubitabili nell’ opera plastica appartenenti alla prima fase del lavoro di Naldi, un altro discorso deve essere fatto per la sua pittura, che, apertasi alla esplorazione del fantastico in un momento di particolare intensità del non oggettivo in Italia, per alcuni anni ha ripiegato su di un indagine quasi anatomica di oggetti ed elementi, organicamente collocati nello spazio, in un rapporto libero, ha in seguito preferito puntare sulla perlustrazione del modernissimo ed affascinante mondo delle macchine, secondo un impietosa e analitica investigazione, talmente ossessiva da far scrivere a Renato Barilli di un “finito” meticoloso, di un “ esecuzione che non lascia posto a incertezze”.

Con le ultime opere Venino Naldi, riagganciandosi ad esperienze dell’avanguardia europea degli Anni Venti, evitando i modi di una stanca figurazione ormai scontata e frusta, riapre un discorso sulle possibilità dell’ invenzione fantastica.

Attraverso una definizione “perfino diabolica” degli oggetti, sbalzati e messi a fuoco con crudele e implacabile decisione, Naldi “li reintegra in tutta la loro durezza, li rende nuovamente taglienti ed aggressivi”, ripristinando un racconto pittorico che senza scadere in naturalismo descrittivo ha tutte le possibilità per aspirare ad una complessità tematica ed espressiva.

Venino Naldi assieme alcuni visitatori della mostra

Luigi Lambertini (1965)

Qual è il significato di queste tecniche miste di Venino Naldi che proiettano da un silenzio siderale macchine ed agglomerati irreali, che esplodono addirittura, che si sovrappongono, articolandosi in una serie di appuntamenti spaziali, di teorie meccaniche, a volte animate, tra le quali regna la metallica freddezza ed un allucinante caos quasi programmato dalla follia di un cervello elettronico?

Se consideriamo che al fondo di ogni nostro atteggiamento sussiste sempre una posizione critica che fa sì s’instauri un rapporto immediato tra noi e il nostro prossimo, tra noi e il passato, tra noi e i motivi dell’epoca in cui viviamo ed infine, tra noi e l’opera stessa, una definizione della pittura del Naldi, meglio, dei mondi di Naldi, potrebbe essere quanto mai chiara ed esplicita o, se non altro, riconducibile ad un denominatore di facile individuazione. Al proposito, in passato qualcuno, “leggendo” queste opere vi ha avvertito una impietosa e analitica investigazione, altri, come ad esempio Renato Barilli, ha parlato, riferendolo alla lezione di un Tanguy, di un Magritte, di un “gusto per un finito meticoloso che non lascia posto ad incertezze” avvertendo inoltre che una simile “strada ovvero la ripresa del surrealismo degli anni ’20 e’30 può portare a gravi rischi, alla costituzione di un mondo gratuito, di pura fantasia, chiuso e irraggiungibile nel cerchio della sua perfezione”. La qual cosa, ci riferiamo all’alea, ha però come fatto positivo, e Barilli lo riconosce pienamente, il desiderio di un ritorno all’oggettività, al racconto. Ora se analizziamo da un punto di vista operativo come sono eseguite queste tavole, noteremo innanzitutto (qui il discorso potrebbe essere ampliato notevolmente) che il pittore si avvale della tecnica del collage, non certo in senso tradizionale e nemmeno con il ricorso al cosiddetto “assemblage”.

In primo luogo avviene da parte dell’artista, contemporaneamente alla scelta ed alla ricerca dei vari elementi, una costruzione mentale dell’opera nel suo insieme, costruzione però che si identifica proprio in questa scelta, in tale reperimento puntuale, quasi chirurgico di elementi e di strutture.

Queste, che vogliamo ora chiamare immagini, subiscono a loro volta, proprio all’atto della scelta, un processo che le disoggettivizza infondendo una nuova dimensione oggettuale alla loro primitiva significanza. Ma tale concatenarsi di paradigmi mentali, su basi estremamente razionali, meglio ancora, analitiche, prosegue al momento della costruzione allorché, composta nel vero senso della parola l’immagine o la serie di immagini, Naldi interviene graficamente e sovente anche pittoricamente su questo schema di mondi che sono animati così non solo da una “scelta” razionale bensì anche da una inserzione, da un intervento estraneo, esterno, che viene ad essere concomitante, non possiamo dire contemporaneo, alla scelta medesima. Allora il processo di trasfigurazione, di creazione di una nuova definizione oggettuale si fa ancora più stringente, giungendo al limite estremo per una sorta di impalpabile e misteriosa dimensione cromatico-atmosferica che giunge a ricomprendere nella sua totalità il dipinto.

A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che un simile procedimento è praticamente analogo per qualsiasi artista che si affacci alle tecniche miste, il chè è anche vero. In Naldi però esiste, a nostro avviso, una componente particolarmente singolare ed è quella che con ogni probabilità darà una risposta al nostro quesito iniziale. Il recupero e la cernita dell’oggetto – dell’immagine, della quadricromia – non avviene infatti secondo la concezione New Dada, ovvero quale sfasamento del valore della realtà oggettualmente reperita e neppure con l’intenzione di trascriverla con le sue varie significanze, ora in chiave feticistica, ora attraverso il filtro di una soggettività denunciataria e provocatoria.

Nelle opere di Naldi invece subentra una dimensione fantastica, un recupero ed un desiderio di magia, di sogni irrealizzati ed irrealizzabili che, in quanto tali, hanno, su un piano dialettico, un significato preciso poiché, proprio un simile attributo, dovuto ad una fantasia non emozionale od emotiva bensì analitica, definisce in senso ontologico una realtà che invece parrebbe trascendente. A questo riguardo possiamo riferirci al periodo iniziale di Venino Naldi, come ad esempio dei dipinti del 1961/62 ai quali Kaisserlian riconoscendo una particolare qualità d’evocazione affermava che “gli interni di Naldi sono abitati da presenze singolari e misteriose provviste di fascino e di calore”. È lo stesso fascino che Alain Jouffroy ritrovava un paio d’anni prima nelle statuette di gusto neoarcaico allorché annotava che esse “non spiegano il mistero ma lo significano.

Ora sarebbe facile concludere l’arco di una simile parabola o almeno collegare le varie costanti di queste annotazioni per formulare, su di una base comparativa e sintetica un giudizio definitivo. Il che però sarebbe incompleto. Infatti, se nelle opere di Naldi pare alitare l’enigmatico sorriso dell’Apollo di Veio una impietosità a volte ironica ma sempre contenutissima, dal lato opposto abbiamo il desiderio di riscattare l’oggetto dalla sua quotidianità per immergerlo, dopo avergli dato una nuova fisionomia, una diversa destinazione, in un’atmosfera fantastico-surreale che nulla ha a che vedere con l’infantile e standardizzato clima ye-ye. Si aggiunga che queste immagini atone e prive di qualsivoglia significanza onirica d’estrazione freudiana, sono solo parzialmente inseribili in un ambito surrealista sia che si consideri quello d’invenzione (Mirò, Gorky, Masson, etc…) sia che ci si riferisca a quell’altro più letterario d’un Magritte, di Tanguy, di un Dalì.

Potremmo invece parlare di una surrealtà, intesa come contrapposizione fantastica alla coagulazione di miti come reazione alle massificazioni, non solo oggettuali, che sono documentate in larghi settori, con un conformismo fin troppo pianificato, da parte di quanti si sono lasciati prendere con eccessivo entusiasmo da un’interazione, accademica di marca surreal-espressionista; in altri termini queste fantasie spaziali di Venino Naldi non sono certo da ritenersi delle facili e speciose astrazioni, bensì delle nette affermazioni di carattere razionale e poetico.

Il fatto che in ognuna di queste opere il tempo venga annullato, in una proiezione spaziale senza limiti e con varietà di prospettive incrociantesi fino a giungere ad un punto di collisione oppure dissociate con aperture che proiettano il dato pittorico al di là della finita contingenza degli stessi dipinti, è secondo noi indicativo e quanto mai convincente poiché l’osservatore viene immerso non solo in un ambito ricollegabile ad invenzioni fantascientifiche, per mezzo di sollecitazioni pretestuali cui egli stesso collabora con un processo d’invenzione emotiva, bensì in una situazione critica che gli prospetta un modo di intendere il mondo delle apparenze che, nonostante una superficiale impressione, è legato, più di quel che non si creda alla contingenza esistenziale della nostra epoca.

Infatti se consideriamo che uno dei maggiori problemi, sovente si tratta di un autentico dramma, dei nostri giorni risiede nel rapporto autodefinente dell’individuo con il resto dell’umanità e con la folla degli oggetti standardizzati della cosiddetta civiltà del consumo, noteremo in queste precise composizioni di Naldi non tanto il simbolico ed allusivo mezzo per una evasione, per un’eversione di principi, quanto la creazione, meglio, la proposta per una nuova dimensione della realtà e quindi della fantasia con la quale viene esplicitamente operato un rifiuto di contingenze standard con la conseguente proposta di presenze “irreali” pur tuttavia attinenti al tema dei nostri giorni.

L’automatismo di gesti portato d un sintesi sensuale e al contempo surreale di un meccanicismo antropomorfico di un Matta (e un altro nome che si potrebbe fare è quello di Wilfredo Lam per la sua carica prevalentemente feticistica) trova, in queste architetture di “nuovi” oggetti, proiettati nel cosmo un’altra alternativa che ha la sua ragione d’essere – attraverso una puntuale ed anche fredda, ma non pessimistica ricerca d elementi strettamente legati appunto alla civiltà del consumo – nel superamento della finitezza per mezzo del quale si giunge ad una dimensione, se non proprio infinita, almeno libera, ma non astratta, dalle sovrastrutture della quotidianità, dimensione fantastica e razionale al tempo stesso.

Panoramica sala espositiva di una mostra con le opere di Venino Naldi

Ciro Ruju (1966)

Le componenti essenziali che sono alla base di queste ultime opere di Venino Naldi, pur essendo comuni alla maggior parte delle tematiche che caratterizzano il nuovo corso del fare arte dei pittori moderni, trovano nel loro concretizzarsi oggettivo una differenziazione qualitativa (la scelta del medium) che appunto le evidenzia maggiormente: la protesta e l’utopia.

In quali termini queste si vengono ad attuare è facile notarlo anche da una semplicistica lettura dell’opera: infatti l’uomo è escluso dal contesto del dipinto quasi che l’artista, nel suo lucido prospettare, volutamente – tramite tale evidente esclusione – voglia evidenziare uno stato di fatto che, sia pur oggi ai primordi, sicuramente proprio per l’automatismo in atto possa concludersi. E tale prefigurazione di un mondo futuro (ma di cui già si presenta l’attuazione) denota in queste opere sì una fisionomia fantastico-surreale, non priva però di quella oggettiva realtà da cui estrae le proprie possibilità espressive ed immanenti: la macchina. Ed è proprio la macchina implicata con tutte le sue possibilità tecnico-produttive che l’artista (seguendone anzi prevenendone l’autocreazione) presenta non in senso apologetico ma quasi di urto nei confronti dell’essere (uomo) creatore e dell’eventualità dell’essere creato (macchina).

La partita così configurata dall’artista dà per scontato il futuro non essere dell’uomo.

Qui è il realizzarsi della protesta che se pur si venga a rendere in una visione utopistica di immagini, spazi e tempi immaginari (ad una lettura di tipo contemplativo potrebbe apparire di piacevole effetto), trova conferma in questa nostra epoca tecnologica dove tutto è programmato per un fine ultimo: la macchina autocreatrice. E l’oggettivarsi in questi quadri dell’utopia ( intesa nell’accezione di Argan non tanto come prefigurazione di un tempo migliore ma come disgusto ed impossibilità di vivere in questo) tramite immagini oggettive prelevate dalla tecnica industriale od ottenute per modificazioni grafiche o pittoriche delle stesse concatenantesi in uno spazio indefinito e proiettate in una dimensione irreale, si offre quasi catarsi storica.

“Qual è il significato di queste tecniche miste di Naldi che proiettano da un silenzio siderale macchine ed agglomerati irreali, che esplodono addirittura, che si sovrappongo, articolandosi in una serie di appuntamenti spaziali, di teorie meccaniche, a volte animate, tra le quali regna la metallica freddezza ed un allucinante caos quasi programmato dalla follia di un cervello elettronico?” (L. Lambertini) se non quello di voler evidenziare con una sorta di predestinazione del fato il crescere nella realtà quotidiana del progresso tecnico-meccanico?

Ciò infatti si viene a dichiarare dall’evidente analogia tra la realtà del quadro e la nostra realtà tecnologica: in quanto l’intenzionalità dell’artista è prospettarci utopisticamente una similitudine che potrà essere: nel quadro dove una macchina si concatena ad un’altra e una struttura ne determina un’altra in un vorticismo irrazionale, quasi che una forza motrice occulta attui questo ciclo meccanico tramite un’interazione alienante (oggettività utopistica); nella nostra realtà tecnologica dove, creata una macchina, non si può fare a meno di pensarne un’altra che la superi (oggettività reale).

Tale resa di un allucinante razionalismo (sia pur suggestiva dal punto di vista formale proprio per l’impaginazione di un racconto fantastico che è reso da una gamma coloristica imprevedibile) è satura di un’angoscia latente tanto più suggestiva quanto più attuale. E tale ricerca comportamentistica di essere del mondo è concreta fondata esplorazione della nostra realtà tecnico-scientifica che si attua proprio nella resa oggettiva della tematica tramite un’intenzionalità di situazioni eventiche ed ambientali che per l’interesse collettivo (nel senso dell’autosufficienza della macchina e quindi della distruzione totale) non deve necessariamente avverarsi.

La proposta figurale di Naldi pur trovando dei riferimenti di astrazione culturale si impone per la sua problematica di relazioni dialettiche con un mondo meccanicistico in quanto essa nella resa concettuale-pratica trova giustificazione. Infatti quell’alone emergente dal contesto dei dipinti di mondi fantasiosi che, come sopra abbiamo detto, escludono ogni visione apologetica, si pone quale ricerca catartica non di evasione (tramite una mera rappresentazione di mondi irrealizzabili) ma di un’eventualità sempre più pressante. La conferma di un tale referenziato procedere (reperire immagini già usufruite e con un proprio esplicito valore semantico per assoggettarle a nuove possibilità espressive) a nostro avviso è nella ricerca oggettiva di prospettare nuove ipotesi di mondi (fantastico-surreali) dove però, l’assenza dell’uomo (annullato anche come remoto inventore) denuncia l’incombenza di un’ineluttabile avveniristica possibilità.

Ed ecco come viene a realizzarsi la poetica utopistica dei quadri di Venino Naldi che proprio nel suo proporci, come asserisce l’amico Lambertini, “una dimensione fantastica, un recupero ed un desiderio di magia (…) di surrealtà, intesa come contrapposizione fantastica alla coagulazione di miti (…)” mira ad un riscatto dell’essere (nel suo già non essere) coercizzato dalla massificazione e dalla tecnologia.

Venino Naldi spiega un suo lavoro ad un visitatore

Marino Mercuri (1966)

David Daiches definirebbe l’arte di Venino Naldi, “fatta per uomini sensibili proiettati verso un fato potenziale”. le tele di Naldi infatti sembrano ipotesi per un mondo futuro, ipotesi create da un “Bewusste Ordnungsprinzip” (principio ordinatore cosciente) di dimensioni astratte ma ombelicamente legate ad una incerta dimensione sospesa fra il mondo sconfinato della fantasia e l’esatto rigore del raziocinio. Ne scaturisce così una iconografia alla Verne: sfida Giulio Verne e James Bond nell’escogitare nuove macchine fantastiche del resto ben congegnate” scrive infatti Giorgio Ruggeri, iconografia surreale e fantascientifica, nella quale però il segno è finito e l’architettura senza incertezze mentre, l’enigmatico componimento, lascia ampiamente intravvedere una realtà adombrata. Risultato: una enigmografia figurata e poetica dalla quale prende corpo un nuovo senso dell’immagine corredata di una altrettanto nuova dimensione del mondo esterno. Non è facile definire in termini di realtà nota la poetica pittorica di Naldi. Soprattutto perché l’artista, con l’assunto avveniristico e fantastico, parla dell’uomo in termini di inconscio, di preveggenza, di fantasia, attraverso una espressione libera e razionale capace di creare uno spazio fantastico reso percettivo in virtù di una concezione generale legata al desiderio umano, spesso onirico, di vivere in un determinato segmento di spazio posto….lassù, dove l’uomo appena oggi timidamente si affaccia. Mondi liberi, orbite di galassie, atmosfere pure quelle di Naldi, forme nate da un preciso ordine mentale e tese quasi alla prevaricazione dell’uomo onde spaziare in un mondo, per dirla con Giorgio Kaisserlian “freddo e lucido, temibile e dai bagliori imprevedibili”. Un sogno quindi, un desiderio, un’evasione, un tentativo di prevaricazione che induce però l’artista ad una puntualizzazione sul valore dell’uomo. Esso infatti, escluso come figura, ripropone la sua presenza attraverso le acquisizioni tecniche e scientifiche, sulla scia delle quali l’uomo, e solo l’uomo, è capace di avvicinare gli astri. Ed è appunto attraverso queste intuizioni che Naldi, servendosi di capacità costruttiva razionale, di armonia coloristica necessaria per qualsiasi soluzione estetica, di una grafia sciolta ed incisivamente esatta, riesce a proporre avvenimenti pittorici astratto-figurativi intesi come essenzializzazione fondamentale della propria arte per mezzo della quale una nuova realtà di vita prende consistenza. Attraverso queste specifiche forme articolate in successiva illusione-realtà, ritroviamo noi stessi, giovani e non più giovani, con la stessa fantasia di un giorno che fu e, soprattutto, con lo stesso calore che fascia ogni “umana” poesia.


Elda Fezzi (1966)

Le avventure cosmiche di Venino Naldi possiedono un carattere di immediatezza, di nitida apparizione in equilibrio tra fantasia e realtà; perciò la sua dimensione tocca sia il campo delle esperienze concrete che quello di un’apertura visionaria ricca di suggestioni, capace di stabilire un colloquio intenso con le meraviglie della scienza. La chiarezza tangibile delle architetture che da anni Naldi va componendo, in scultura e pittura, si avvale infatti di alternative ritmiche e ottiche che coinvolgono lo spettatore in un’inattesa e pur coerente colorazione, fondata su rapporti di logica cinetica, per cui gli ordigni che vi sono protagonisti convergono entro lo spazio ricurvo con una dinamica agevole, con aspetti che stanno per divenire usuali, tanto che ogni avvenimento dipinto ci appare di una naturalezza eccezionale. Il fenomeno degli incontri e scontri cosmici fra apparecchi intrepidi e allegri, ci viene innanzi come una scena splendida del nuovo spettacolo del mondo. In un certo senso, è dato lo scacco ad ogni forzatura di combinazione meccanica e tecnica, evitando ogni paradosso fantascientifico, riuscendo invece ad ottenere un racconto di straordinaria scioltezza e verità. L’impeccabile struttura di ascendenza metafisica che si potrebbe trovare in questi dipinti, non fa che aumentare l’intrinseca tensione dello spettacolo.

Del resto ogni avventura spaziale di Naldi, mentre si costruisce con la viva attività dell’immaginazione – nel muovere i nervosi e fatiscenti meccanismi, nel far scintillare quel loro involucro smaltato e prillato, da viaggio lunare – è frutto di una serena adesione e partecipazione alla science fiction, la fantascienza, ma legandola a tipi di immagini possibili o addirittura già reali.

Se la visione ha talora il colore e l’urto inventivo di una situazione misteriosa, vi penetra un moto di ironica variazione.

Ciò che appare più tipico dell’opera di Naldi è la possibilità di dare un limite visivo e credibile all’evento, isolandone e incorniciandone le immagini quasi per inserirle in uno spazio controllato e vicino, su cui si può esercitare una vera e affascinata attenzione, attratta dallo svolgimento dei moti, dalle traiettorie degli “oggetti”, dall’improvviso splendore degli ordigni. In ogni ‘avventura cosmica’ di Naldi esiste senza dubbio una ‘suspence’ misteriosa, che tuttavia acquista una qualità singolare: il tono di una leggenda che sta per divenirci familiare, non più carica d’incubi fantomatici, bensì imperniata su fatti scientifici concreti. Il mito è costretto a perdere l’orrido e a farsi estremamente più reale e a prendere luogo nell’orbita umana. Ma, quasi per un’immancabile astuzia della natura, mentre l’uomo ne scopre i segreti, si fa di nuovo sfuggente e arcano.

Nell’opera di Naldi si verifica un naturale innesto – che è poi quello che ci accade ogni giorno – fra l’immagine quotidiana (quella del rotocalco o del film, lucida e ritagliata) e una trama di immaginazioni che, su quelle tracce visive, va riempiendo e allargando lo spazio e gli approdi del nostro pensiero, che si trova appunto a scandagliare incredibili orizzonti, chissà in che modi assurdi e quasi infantili, dato che la scienza per noi profani resta sempre un gioco troppo superbo e distante. Eppure questa unione che Naldi tenta fra pittura di meccani e immagini ‘trovate’, fondendole in contatti rari e perfino preziosi di accesi o profondi colori, attinge la possibilità di un’autentica variante fantastica, uno di quei tragitti favolosi, e pur già suggeriti dalla realtà dei fatti scientifici, che l’uomo di oggi consuma nei segreti della fantasia.

I vecchi mezzi della pittura posti al servizio di una ben dotata natura fantastica possono ancora servire per interpretare quei sogni ad occhi aperti, e nell’architettura dinamica di Naldi la loro bellezza sembra prendere consistenza in un’illusione ottica veridica. Il fatto che sta per accadere tra gli apparecchi animati, può avvenire anche nei mondi abissali; ma ci si prova a porlo su uno schermo ravvicinato che, come è fatale che avvenga alle nostre corte vedute, tempera le distanze e dispone il fenomeno ad una singolare proprietà di esperimento familiare, come avvenisse dentro un laboratorio che ben conosciamo e in cui ogni scoperta ci apparirà meno irreale e meno incomprensibile.

È l’elemento più caratteristico di Naldi, questo, di cercare un tramite fra ignota e fredda distanza delle operazioni misteriose della scienza e una loro possibile veridicità umana, leggibile e nutrita di vive analogie con le presenze meccaniche e animate che stanno per divenire parte del mondo quotidiano.

Per giungere a questo stadio di comunicazione di una materia tanto ostica alla sostanza della pittura e alla forma poetica dell’arte figurativa, è certo che il pittore ha filtrato le esperienze del miglior futurismo dinamico, le operazioni multiplastiche del cubismo, l’insistenza razionalistica del costruttivismo, fino a indurne, con genuino vigore espressivo, una tale freschezza di immagini, vissute con piena immedesimazione. Anche la composizione che assesta in modo così limpido e vibrato, il fuoco del racconto, è un congegno mobile che lascia libertà massima all’immaginazione e proietta sempre nuove parabole probabili avventure cosmico-terrestri.

È sempre presente nelle opere di Naldi la volontà di dominare le sequenze e i moti delle forme meccaniche, svolgerle con una schietta libertà di movimenti e, superata ormai la fase di ogni tabù meccanicistico, di mitizzare la macchina per darle invece il ruolo di perspicuo e invitante personaggio della realtà odierna; affinché divenga motivo e occasione di mirabile spettacolo, affascinante momento della realtà.

È questa una nuova possibilità di osservare la vita del mondo odierno attraverso una pittura che si fonda ancora su un’aderenza inesauribile agli oggetti e insieme conserva l’azzardo felice dell’immaginazione, sempre servendosi di una crescente maestria grafica e di uno sfruttamento emozionante del colore nuovo, oltre che di ogni elemento di rigorosa natura tecnica, trovato o inventato. Se il montaggio si fa stringente e precipìte è sempre dosato da una penetrazione acuta nelle probabilità di irradiazione dei movimenti, fino a condizionare le impennate architettoniche e ottiche attraverso una ragione narrativa, che ne dà spiegazioni quasi semplici, ovvie, e pur capaci di preparare le più avventurose sorprese.

Venino Naldi davanti un suo quadro in una mostra

Renzo Margonari (1967)

Nella tecnica del “collage” Naldi ha sviluppato un linguaggio che usa con un’abilità straordinaria. Si può ben dire che in questo campo l’artista bolognese dia il meglio di sé, riuscendo a realizzare opere di misura più che ragguardevole per questo particolare settore dell’espressione artistica moderna.

Venino Naldi è pittore di estrazione surrealista (anche nel precedente periodo risentito dell’Informale, l’artista figurava immagini ambigue e misteriose) e le sue composizioni rappresentano macchine fantastiche nelle quali, divenendo esse stesse personaggi, si sente l’angoscia per l’annullamento dell’individuo in una civiltà supertecnologica, verso la quale sembra tendere la nostra civiltà.

La mia tesi contrasta lievemente con quella di Luigi Lambertini secondo il quale la visione di Naldi non sarebbe una visione pessimistica. A mio avviso la freddezza delle immagini fantascientifiche di Naldi è da attribuire ad una inconscia diffidenza per la macchina, che nelle sue opere è sacralizzata e incute timore come il Totem di una civiltà sconosciuta.

Il mio parere è che la rappresentazione ossessiva delle macchine abbia per Venino Naldi un senso esorcistico. Si direbbe che il suo lavoro di immaginazione, che si inserisce decisamente nel filone dell’arte fantastica, gli serva per riscattare l’idea dell’individuo nei confronti dell’idea della macchina autosufficiente e pianificante. Un po’ come l’uomo delle caverne che per catturare il bufalo ne avvicinava prima l’immagine tracciandola con grasso e terre sulle pareti della sua caverna. Naldi usa un linguaggio contemporaneo: quello dei rotocalchi, fonte inesauribile delle immagini che ritagliate e ricomposte daranno vita all’insieme della rappresentazione. La carta è scelta con cura a seconda dei retini e dei colori. Qualche volta Naldi ottiene persino dei risultati tonali; dove si rileva la sua profonda natura di pittore.

C’è, al fondo, l’ossessione della Macchina che finirà per ribellarsi al suo inventore e annientarlo, ma senza dramma. Tutto avverrà in silenzio, asetticamente, scientificamente.

Naldi ha il potere, nella sua ossessività, di essere lucido e vi riesce anche in virtù della tecnica che usa, nella quale l’intervento “di mano” è ridotto veramente al minimo. Ma anche quando fa dell’incisione o della litografia (un’altra delle tecniche nelle quali, con la ceramica, è maestro) queste caratteristiche vengono mantenute.

Questi sono alcuni appunti che ho steso di volta in volta sul mio taccuino visitando le mostre di Venino Naldi negli ultimi due anni. L’artista, ultimamente, aveva intensificato la sua attività in una specie di parossismo allestendo fino a due Personali contemporaneamente. Pareva quasi consapevole della sorte che avrebbe brutalmente interrotto la sua ricerca proprio in un momento di particolare tensione e creatività.

La sezione che gli dedichiamo in questa mostra non è un omaggio all’artista scomparso ma l’affermazione della validità di un pittore ancora ben vivo e operante e veramente, concretamente presente nel panorama della pittura italiana.

RENZO MARGONARI, 1965-1966

Vernissage mostra con Venino Naldi

Luigi Lambertini (1967)

Le ultime opere di Venino Naldi dimostrano chiaramente come il giovane pittore bolognese, immaturamente scomparso lo scorso anno, fosse giunto ad una consapevole maturità, sia per quanto concerne la formulazione del suo discorso, sia per quanto riguarda l’espressione formale dello stesso. Si tengano presenti a questo proposito le origini culturali dell’artista il quale, attraverso una dialettica precisa ed attenta ai motivi ed alle atmosfere di un’epoca dominata da una tensione materica, pervenne al superamento graduale di qualsiasi contingenza informale, articolando variamente una personale facoltà evocatrice.

È quindi interessante ricordare il suo primo importante contatto con il pubblico e la critica. Nel 1958 Naldi in una collettiva – si tratta di una rassegna di notevole valore intitolata “13 Pittori Figurativi” ed allestita al Circolo di Cultura di Bologna – espose tra l’altro un paesaggio nel quale alitava una astratta sospensione metafisica mentre la composizione veniva ad essere quasi avvolgente. poi il discorso continuò e, da un certo punto di vista, raggiunse una dimensione più precisamente surreale, addirittura enigmatica. Stiamo pensando a quelle statuette plasmate sempre nel medesimo torno di anni sulle quali rimane una bellissima testimonianza inedita di Alain Jouffroy il quale annotava che esse “non spiegano il mistero ma lo significano”. La componente enigmatica di queste opere infatti è fortissima al punto da giungere ad una palpitante ieraticità che nulla ha però di sacrale.

S’è parlato di evocazione, ebbene, in questi Totem del tutto fuori tempo, in queste divinità di una religione mai esistita è come raggelato il senso dell’eternità, il mistero della vita che imperturbabilmente si snoda tra miriadi di personaggi destinati a soccombere come singole individualità ma non certo come specie; all’enigma però è unita anche l’ironia, quell’ineffabile distacco, che può parere addirittura crudele ed inumano che si trova nel sorriso dell’Apollo di Veio.

Denominatori analoghi lievitarono anche in quei dipinti di estrazione informale che per un certo periodo Naldi eseguì pagando così il pedaggio della sua gioventù che per forza di cose lo portava ad essere coinvolto in una situazione generale che gli fu comunque utile per una ulteriore decantazione.

Naldi insomma aveva avvertito la necessità di un dialogo sempre più ampio le cui costanti crediamo siano individuabili sia nella sua produzione di statuette di terracotta, sia nei dipinti di origine informale che rappresentano un mondo in fieri, sul punto di liberarsi dalla materia con una sorta di partenogenesi. Una continuità di base, al di là del fatto formale, un filo conduttore che collega tutta l’opera dell’artista sono costituiti, in altri termini, da questi passaggi di una sottigliezza veramente acuta che da una dimensione metafisica pervengono ad un’altra non del tutto surreale per un costante aggancio alla realtà razionale. Ne sono riprova le tecniche miste - la sua prima personale con opere di questo tipo comprendente una trentina di quadri venne allestita nel dicembre 1965 alla Galleria de “L’Argentario” di Trento – che assommano un modo nuovo di “vedere” le cose. Il carattere dell’immediatezza ed un equilibrio esattissimo tra la componente fantastica e quella logico-razionale, attraverso la quale l’artista sceglieva gli elementi compositivi del dipinto vengono ad essere un tutt’uno pur essendo alle origini profondamente differenziati. Il che porta automaticamente ad una sospensione che, al contrario delle consuete pratiche surreali, è contraddistinta da una tipica dilatazione dovuta da un calcolo, da un controllo quasi calvinista del pensiero sull’emozione. Per questo il mondo di Naldi è imbevuto di un silenzio agghiacciante ma non essenzialmente pessimistico. Le sue “architetture” o “appuntamenti spaziali”, con un recupero di immagini di oggetti di uso comune che sono trasfigurati in modo tale da divenire altre cose, debbono essere considerate, oltre al resto, come una acuta replica a certa oggettualità Pop del giorno d’oggi. L’ironia delle scelte – ci riferiamo alla fase operativa dell’artista – si fonde infatti ad una suspence che è l’immediato tramite con il quale Egli riesce a fare avvertire una presenza umana in questi aggrovigliati mondi avveniristici. Un recupero ed un desiderio di magia , di sogni irrealizzati ed irrealizzabili, può allora farci intravvedere una calcolata rinuncia? Sono incubi che diventano favole o viceversa? Una risposta è certamente implicita nelle stesse domande che ci siamo posti e che Naldi con queste opere propose mettendo in forse quanto la realtà quotidiana impone e quanto, dal lato opposto, l’immaginazione ha la capacità di dilatare. È inoltre evidente come questa surrealtà, o per essere più precisi, questa metafisica sospensione entro la quale s’inseguono straordinari meccanismi in una proiezione spaziale senza limiti con una dinamica di prospettive ora collidenti ora dissociate, sia frutto di una visione sintetica ed unitaria di tradizioni e di esperienze che possiamo far risalire sia al futurismo dinamico sia al razionalismo costruttivista, sia ancora a certe istanze cubiste.

Un altro spunto per un’indagine critica sull’opera di questo pittore potrebbe essere fornito dal rapporto che intercorre tra essa e le fantascientifiche invenzioni dei fumetti. E in questo caso il collegamento, il tramite, sarebbe costituito dall’oggettualità delle immagini di Naldi mentre il fattore che verrebbe ad escludere un simile connubio consisterebbe sempre in quella dilatazione di carattere poetico e conflittuale tra ironia e contestazione, tra fantasticheria e timore di una realtà. La macchina-oggetto insomma, mentre è sottoposta con questo processo ad una demitizzazione diviene contemporaneamente spettacolo e l’osservatore, per l’atemporalità di queste proiezioni spaziali, si trova inserito in un mondo di apparenze il cui vero viene annullato, svisato, e quindi riespresso al punto di fargli vivere una cosciente evasione che è anche un rassegnato modo di essere in un mondo nuovo. Non per nulla la presenza dell’uomo, negli spazi siderei di Naldi, si avverte chiusa in perfettissimi strumenti mentre tutto ciò che la coinvolge diventa lontano e silenzioso, senza inizio né fine.

Foto di Venino Naldi ad una sua mostra

Marcello Azzolini (1968)

Ancora nel 1962 Venino Naldi, proveniente da un figurativismo di tipo neorealista, ha costruito pittoricamente e per breve volgere di tempo ancora- con toni bassi, cupi, misteriosi, vagamente insidiati cromaticamente – immagini di archeologici interni tombali. Si trattava infatti di oggetti di pseudo reperto, appena illuminati, con vaghe ed incerte forme ad andamento soprattutto geometrico, stivati in simulacri di scaffalature parietali, immersi nel mistero di un’ombra millenaria, chiusa e spessa, coagulata in patine senza spessori, ma cristallizzate nel tempo. Erano ancora immagini fortemente miniate dall’ambiguità, certamente nate in un clima informale, il quale però non aveva potuto sopprimere definitivamente la nozione di oggetto, l’ultimo residente simulacro dell’usualità quotidiana, della strumentazione umana. Erano immagini nelle quali la luce filtrava a stento, giocando sull’ambiguità dell’oggetto, troppo poco materializzato, da bassorilievo arcaico.

Poi d’improvviso, appena nel 1963, ecco gli oggetti riemergere – in coincidenza con l’uscita di Naldi dal clima fortemente influenzante dell’informale – in altre dimensioni, in una lucidità allucinata, precisi nella loro strutturazione, soggetti soltanto ad una ambiguità volontaristica, ma rispondenti ad una logica strutturale rigorosissima; trasferiti in spazi siderali, seppur sovente chiusi non soltanto nelle dimensioni contenute della tela, ma anche nel giro di un cielo incupolato, proiettato oppure bloccati in una suggestiva ed affascinante ipotesi di futuro. L’elemento fantascientifico delle figurazioni successive al 1963, se non è dominante, è tuttavia concorrente a determinare un’aura surreale, una sorta di surrealismo, cioè, ma tecnologico la cui oggettivazione non ha riscontri però né storici, né umani. È il frutto di una lucidità cerebrale allucinante, persino precorritrice – ed ecco in quale senso fantascientifica – di meccanismi che la scienza magari non ha ancora elaborato, ma che può sempre elaborare da un momento all’altro; che acquistano una loro attendibilità, una veridicità in ogni momento avvenire, convalidata dalla realtà scientifica, ma che intanto si muovono o ristanno in un mondo metafisico e metastorico o semplicemente a-storico.

Macchine ed oggetti spaziali che possono appartenere, sì, all’uomo in corsa verso il futuro, ma del domani, che appartengono più al divenire che alla realtà immanente dell’uomo. oggetti d’alta meccanica, precursori tecnologici non soltanto in senso strumentale, ma in senso immaginifico.

A questo livello appare irrilevante stabilire quanto e come il mezzo pittoricamente operativo del “collage” abbia contribuito alla resa di siffatte immagini, e quanto certo preziosissimo grafico ne abbia sostenuto o ne sostenga la validità espressiva, anche nel momento in cui, avvicinandosi per analogie (e non so bene con quanta consapevolezza o intenzionalità) all’ipotesi poetica di un Romagnoni, ad esempio, Venino Naldi ha soppresso la cromia --- riconquistata più tardi in funzione di lucida, trasparente situazione ambientale. Appare molto probabile invece che, in una stasi metafisico-surreale delle prime immagini di riconquista dell’oggettualità, una qualche influenza possa essere venuta al Naldi dall’esempio di un Matta, per inserire un macchinoso dinamismo per altro attivamente suggestivo e galvanizzante: un dinamismo espresso tentacolarmente. Subito però l’attenzione immaginativa di Naldi è stata riportata sulla macchina ipotetica unitariamente globale, in forme più compatte e chiuse e penetrante, percorritrice di spazi rarefatti, in un’allusione di lontananze infinite, ormai fuori dalla misura umana, perciò recuperabili attraverso l’analitica dell’intelligenza, anche se poi i sentimenti e le emozioni dimensionano le immagini ad una comprensione umana da cui può nascere la terrificante presa di coscienza di un possibile mondo “monstre”.


Franco Passoni (1972)

Venino Naldi, che è la rivelazione di questa mostra presentata a Legnano, è un giovane pittore bolognese, nato a Baricella nel 1928 e morto immaturamente il 26 novembre 1966, all’età di trentotto anni. Naldi è l’erede di Depero, la robotizzazione delle macchine assume, nei suoi dipinti, un aspetto di odissea nel tempo della tecnologia più avanzata. Le sue immagini sono elaborate, silenziose, glaciali, terrificanti.

Riemerge in questi quadri un fattore psicologico assai vicino alle fluttuazioni dell’inconscio dei surrealisti che rifluisce nell’orizzonte sociologico, pur continuando una esplorazione della vicenda macchinistica sul piano figurale. C’è un accento di parossismo ch’esclude l’antropomorfismo e ne caratterizza l’invadenza. È questo un aspetto che è estraneo al futurismo ma ne è direttamente susseguente, consequenziale e direttamente collegato a quei movimenti che hanno intravisto anche l’elemento catastrofico della macchina.


Giorgio Di Genova (1975)

XII. Nel cosmo fantastico

Ancor prima che fosse in grado di volare, l’uomo ha sempre soddisfatto con la fantasia l’atavico desiderio del volo. Dal mito di Icaro, agli studi sulle macchine volanti di Leonardo giù giù fino ai viaggi sulla Luna dell’Astolfo aristotesco, di Cirano, Verne e Melliés, l’uomo ha sempre denunciato la sua forte aspirazione al superamento dei suoi condizionamenti fisici. Il volo, forse anche per quel suo senso di vertigine strettamente collegata con l’istinto sessuale, a dire di Freud, che nella sua Interpretazione dei sogni ricollega il volare alle prime sensazioni sessuali provate nei giochi infantili basati sul volo, ha assunto significato liberatorio (non a caso il materiale delle fiabe popolari è ricco di episodi di volo: ecco un’altra buona ragione per avvallare una lettura parzialmente sessuale del “oggi si vola” di Gallizioli). Già molto prima che potesse volare nel cielo terrestre, l’uomo ha fantasticato voli più arditi nel cosmo, spinto dalla sua forte aspirazione di andare oltre il noto e l’umano, anche se mai c’è riuscito (e tutta la science fiction: in ogni invenzione fantascientifica, pure la più azzardata e imprevista, si rimane sempre nell’ambito del conosciuto, del prefigurato sulla base delle conoscenze acquisite e dell’umano. Non esiste, infatti, fantascienza che non provenga dalla “parte dell’uomo”, perché, essendo l’uomo il soggetto che immagina, non può ovviamente concepire realtà veramente “altre” rispetto a quelle configurabili nella sua mente).

È sulla scorta di queste premesse che va interpretata la pittura e il collages che Venino Naldi ha realizzato negli ultimi anni della sua vita nel breve spazio che va dal 1963 al 1966. Si tratta di visioni fantascientifiche, in cui l’aspirazione all’ignoto ed al superamento dell’usuale condizione umana rivela un personale pessimismo nei confronti dell’uomo che pure dovrebbe essere l’ingegnere-scienziato costruttore di queste fascinose macchine spaziali. Perdendosi nella sua vertigine cosmica, Naldi si dimenticava totalmente dell’uomo e di conseguenza di se stesso. Rimeditando a suo modo su certe suggestioni avveniristiche di Matta e sul metodo collagistico dei racconti di Romagnoni, Naldi ha dato luogo ad una sua disumanata odissea nello spazio che è anche un viaggio attraverso le meraviglie della tecnologia spaziale, viaggio ben differente e più suggestivo di quello troppo realistico e del resto posteriore di un Mancinotti. Il cosmo popolatissimo di perfezionatissime macchine e laboratori spaziali, spesso fittamente ingorgati in un traffico che nulla ha da invidiare a quello motorizzato delle città di oggi, era senza dubbio visto come una fuga dalla realtà quotidiana, come sogno avveniristico permeato d’una sorta di misticismo tecnologico che si basa sulla fede ingegneristica e si realizza nell’estasi dell’artificiale.

Più che “demitizzare la macchina, come vorrebbe la Fezzi, per darle, invece, il ruolo di perspicuo ed invitante personaggio della realtà odierna, affinché divenga motivo ed occasione di mirabile spettacolo, affascinante momento della realtà”, Venino Naldi mitizzava la macchina, facendo scaturire lo spettacolo da una fantasticazione, esalatrice delle sue più avanzate possibilità e dell’avventura ad esse connessa.

Foto di Venino Naldi ad una sua mostra

Romeo Forni (1977)

Venino Naldi si accosta al surrealismo, espresso in maniera “finita”, subito dopo il ’60. Non lo turba il fatto d’aver operato convinte ricerche nel campo dell’informale dove la fantasia era chiamata a svolgere un ruolo determinante nella rielaborazione materica, affidando all’effetto cromatico il proprio racconto.

Naldi conta anche un interessante lavoro di ceramista, i cui soggetti, ma soprattutto le sue figure (sacerdoti di una religione collocata nel misterioso parallelo di una immaginaria sfera precolombiana) prendono vita da evidenti momenti di coagulo plastico e di aggiustamenti psicologici. Sente così, la necessità di ritornare a leggere gli oggetti e le cose, ma non nei modi “….della vecchia tradizione figurativa, perché quei modi, ormai consueti tendono a nasconderle, piuttosto che a scoprirle. La lente aberrante, maniaca, a volte persino diabolica fornita dal surrealismo risponde bene invece a questo compito che sbalza gli oggetti fuori dalla capsula abitudinaria che vuole rivestirli, li reintegra in tutta la loro durezza, li rende nuovamente taglienti ed aggressivi” (Renato Barilli – catalogo per la mostra alla Galleria “L’Arco” di Macerata Novembre 1964). Il pittore, quindi, propone un mondo di macchine moderne, collocate in una dimensione spaziale. Una o più “astronavi”, come il prodotto di un razionalismo tecnico, appaiono, così, anticipatrici dell’era tecnologica lanciata alla conquista del cosmo, in cui le moderne teorie meccaniche sono evidenziate con allucinante freddezza metallica. Macchine di uno strano sistema polare: una specie di congegni meccanici, come uccelli fantastici accucciati fra le braccia di sogni smarriti nella profondità di un firmamento impastato di annerita splendente materia, sulla quale passeggiano, appunto, queste sue “ipotesi” alla Giulio Verne.

Su un equilibratissimo gioco della fantasia, dunque, la sua mano risponde appieno ad elaborate impostazioni ambientali tradotte in sintesi grafiche e volumetriche, tendenti ad esprimere le diverse articolazioni di un messaggio concettuale da traslare su altri pianeti. La sua matita a carboncino, capace di spolpare gli stessi pensieri e di elevarne gli automatismi espressivi, nel tratteggio chiaroscurale (in vere gamme di freddi colori) definisce, via via, gli esiti di particolari stati d’animo maturati, appunto, nell’immaginario contatto diretto entro cui la sua “macchina”, forando il cielo, mette a fuoco i segreti inviolati dell’atmosfera.

Opere organiche e singolarissime, perciò, scaturite da una mente indipendente e realizzate, in prevalenza, con tecniche miste e collage : le immagini ritagliate da manifesti e da rotocalchi sono ricomposte in accostamenti stravaganti integrati con tonalità extraterrestri dai valori inusitati.

Negli anni che vanno dal ’62 al ’66, quindi, per Naldi ogni giorno si sveglia un’alba pulita le cui pupille leggono vicende di un’attualità sorprendente; riescono a salire sul coperchio della calotta celeste, penetrando e scalfiggendo, con martello e scalpello, il muro vetrato del cielo. “C’è, al fondo, l’ossessione della Macchina che finirà per ribellarsi al suo inventore e annientarlo, ma senza dramma. Tutto avverrà in silenzio, asetticamente, scientificamente” annotava Renzo Margonari in “recupero del fantastico – 1967”.

Improvvisamente, un fulmine incrina e spacca il cristallo della sua esistenza. Negli ultimi due mesi di vita, nella sala d’aspetto del doloroso calvario l’artista continua a macinare visioni spaziali, a prendere appunti…… e muore dentro il cielo mentre insegue l’intento di strappare lo spazio all’ultimo orizzonte, penetrando nella coltre grigia che fascia la volta terrestre. Per sempre, va ad esplorare le piste che la sapienza celeste ha tracciato su trapezi di vento dai quali si controllano le albe e i tramonti: i crepuscoli che dipingono la monotonia di una giornata per agguantare un brandello di pace ristoratrice.

Foto di Venino Naldi ad una sua mostra

Renzo Margonari (1980)

Le più recenti riproposte dell’opera di Venino Naldi dimostrano quanto avanzata fosse la sua ricerca, al punto che ancora oggi le sue grandi composizioni a collage reggono il paragone con tutto quanto s’è prodotto, nel contesto internazionale, di simile. Molte opere d’avanguardia – pur continuando a farsi considerare determinanti nella prospettiva storica – cedono, nel tempo, sul piano della qualità tecnica ed estetica. Le opere di Naldi, invece, continuano a farsi presenti anche in considerazione della fattura per la quale aveva una religione. Lavorava con un amore sconfinato per i materiali, per le tecniche espressive. Curava ogni dettaglio con attenzione infinita. Pretendeva che le sue opere sopravvivessero.

Quando, nel ’63, Renato Barilli segnalava un progressivo allontanamento di Naldi dall’area neofigurativa più generica e dall’Informale, di cui Bologna era rimasta l’irriducibile roccaforte, in realtà Naldi s’era già avvicinato al recupero del Surrealismo esponendo a Milano, da Schwarz, alcune statuette di terracotta in “Arte fantastica italiana”, una collettiva presentata da Emilio Tadini. Nel ’62 dipingeva paesaggi arcaici che si potevano far risalire ad alcuni dipinti di Max Ernst quali “La città intera” ma, più genuinamente, come diceva Marcello Azzolini, “da una interessata permanenza a contatto con le testimonianze artistiche della civiltà nuragica”.

Lo conobbi in quegli anni. Era un suscitatore d’ interessi, un uomo di quelli capaci di “legare”. Aggregava continuamente giovani pittori, organizzava mostre collettive a ripetizione, le sue esperienze divenivano in breve esperienze comuni a tutta la sua cerchia. Già da tempo ero dedito alla sua stessa ricerca ed il nostro incontro non potè essere che fraterno sin dal primo momento. Ricordo che Emilio Contini – anche lui impegnato da tempo in territori inesplorati dalla cultura italiana e massimamente da quella bolognese – a condurlo a visitare una mia mostra. Poche ore dopo ci eravamo già scambiati un’opera come segno di reciproca stima. Presi a seguire da vicino gli sviluppi della ricerca di Naldi. Nella Bologna d’allora solo pochissimi erano disposti ad accreditare un’arte visionaria ed oggettiva come la sua.

Il più assiduo fu indubbiamente Luigi Lambertini, che indicò, giustamente, tra le matrici formative dell’immaginazione naldiana l’ “automatismo di gesti portato ad una sintesi sensuale ed al contempo surreale di un meccanismo antropomorfico d’un Matta”. Le sue prime “macchine spaziali” erano, infatti, dipinte come fermando e cristallizzando larghi gesti ellissoidali e concentrici, d’una assoluta eleganza formale. Dipinti con velature e colori riproducenti luci fluorescenti o bagliori elettrici si legavano chiaramente al primo periodo mattiano delle “Morfologie psicologiche” e soprattutto delle opere di quegli anni di cui si vide un’esauriente mostra – fece epoca – al Museo Civico di Bologna, che tentava di rompere, in parte riuscendovi, un radicato provincialismo culturale. Ma Naldi perdeva via via la gestualità del segno producendo immagini d’esecuzione sempre più accurata. In questo processo ebbe – a mio avviso – molta importanza la grande dedizione alla grafica-incisione e litografia, disegno – per quei tempi del tutto singolare, in quanto pochissimi artisti vi prestavano attenzione. La progressiva disciplina del mezzo tecnico lo portò sempre più ad oggettivare le forme dei dipinti e ben presto nacque la necessità di superare i limiti della pittura ad olio, accettando la fotografia – tramite il collage – come un mezzo per raggiungere una maggior concretezza formale. Dapprima Naldi ritoccava e correggeva le immagini, aggiungendo segni e talvolta predisponendo fondali alle sue “macchine astrali”, ma ben presto potè produrre composizioni esclusivamente ritagliate ed incollate. Lo ricordo allora immerso in cataste di rotocalchi e grandi manifesti dai quali traeva gli elementi che ritagliava e componeva provvisoriamente prima di fissare un assetto definitivo. La sua tecnica di collage non era facile:innanzitutto faceva una scelta cromatica così da impostare totalmente il colore: per cui, non solo i ritagli dovevano avere determinare caratteristiche di forma, ma pure il rapporto coloristico. Il suo perfezionamento era giunto al punto che non s’accontentava di questo ma esigeva che le parti stampate adottate avessero la stessa retinatura così da apparire, nell’insieme del quadro, come una figura omogenea e non ricavata da decine – a volte centinaia – di pezzi.

Le “macchine” acquistavano vieppiù aspetti allusivi. Richiamavano figure umane ed animali ma senza ipotizzare l’immagine come robot o simulazioni meccaniche. Ogni macchina, in fondo, è costruita a somiglianza dell’uomo poiché ne è il prolungamento, l’estensione di facoltà fisiche che non sono pari alle facoltà intellettuali, per cui occorre creare strumenti così da giungere dove il debole corpo umano non può. Spesso, però, il progetto umano si dimostra irrazionale, assurdo, allucinante, inutile, come la corsa all’esplorazione dello spazio sidereo attuava pervicacemente benché sulla Terra nel contempo si muoia di fame e di malattie, ed intere popolazioni sopravvivono ad un livello di vita subumano.

Le macchine di Naldi sono degli agglomerati irrazionali di apparati tecnologici che estendono le loro antenne nello spazio quasi ad abbracciare il nulla. I loro radar sono orecchi per ascoltare il silenzio, le luci fosforescenti – frutto di misteriose combustioni interne – sono occhi aperti nel buio. È un’immagine quotidiana, ormai, ed attuale: non più fantascientifica. Il mostro tecnologico vagante nello spazio, il totem meccanico, il dio scientifico non sono stati esorcizzati, come penso volesse fare inconsciamente Naldi con i suoi quadri. Viviamo quotidianamente in compagnia di quelle che sono le nuove piramidi d’Egitto e contemporaneamente ipotizziamo la nuova frontiera dell’umanità. Ma le macchine astrali di Naldi appaiono ancora angoscianti, nel loro freddo silenzio laborioso, sotto il quale si cela il fruscio dei realais che scattano, il friggolio delle luci al neon, il sibilo ritmico soffocato dei computers, nella totale assenza dell’uomo. Macchine come mostri artificiali autosufficienti, con l’aria di essere eterne, di sopravvivere all’umanità stessa. Nei quadri di Naldi c’è l’angoscia di chi non comprende se si tratta d’una parvenza di vita o d’una finzione di morte. La dissociazione e l’isteria dei nostri giorni l’hanno avuto profeta, come spesso finisce per essere chi si tuffa nelle acque senza fondo dell’intuizione poetica.

RENZO MARGONARI


Arrigo Grazia (1989)

Una mostra di Venino Naldi, ad oltre vent’anni dalla scomparsa, nella città in cui ha operato, è il tributo doveroso ad un artista altrove ricordato in pubblici spazi, con continuità e rilievo critico, in mostre collettive a tema e con un imponente retrospettiva a Mantova nel 1980.

L’apprezzamento immutato verso la sua arte nell’ambiente bolognese (ricordiamo la mostra del 1978) non appartiene allora alla sfera della privata stima di amici e colleghi, bensì ad una memoria collettiva che si è imposta oltre il tempo. Ma per un artista, se non se ne impossessa il mercato o se non viene glorificato dalle celebrazioni, il rischio di un’archiviazione nell’anonimato permane, l’attesa della giusta sistemazione si prolunga oltre le esistenze dei singoli, in balia di fattori e tempi imponderabili.

È necessario quindi un approfondimento che riallacci i fili della cronaca e, alla luce del clima culturale e della situazione locale in cui ebbe ad operare, inizi a tracciarne una storia.

Il periodo cruciale che attorno al 1960 vide sia la rapida crisi dell’informale sia il declino del neorealismo procurò non poche difficoltà ai giovani che in quegli anni di certezze perdute si trovavano a decidere sul futuro senza precisi orientamenti. Naldi, da poco concluso un breve periodo neorealista, si era subito avvicinato ad un informale ormai avaro di stimoli e prossimo a concludere la sua stagione. Frequentava la Galleria Duemila di G. C. Franchi, da poco nata, era dunque tra gli artisti più attenti alle novità e fu tra coloro che aderirono alle tendenze neofigurative che si ponevano, varie e sfaccettate, come rinnovamento dell’informale, di questo utilizzando in molti casi tecniche e materia, consentendo così un raccordo senza cadute di creatività o crisi personali insanabili.

Le sue pitture di quel tempo avevano una materia informale non tormentata, estranea all’ultimo naturalismo caro ai bolognesi, era corposa e controllata, da essa emergevano entità dalla solennità statuaria, strutture non identificabili quanto immaginabili, che una luce ambigua rileva come affioranti da stratificazioni, insediamenti preistorici, archeologie dimenticate nei recessi di perdute civiltà. Forme totemiche e divinità misteriose furono espresse anche in ceramiche di alta fattura, sulla linea di un “neoarcaismo soggettivo” (Jouffroy) in cui, al contrario della pittura, le figure erano precisate spesso con particolari minuti. Nel giro di un anno, si era nel 1963, Naldi ebbe un radicale cambiamento: passò dagli arcaismi alle invenzioni di macchinari spaziali e futuribili: il mutamento di stile e tecniche, strutture articolatissime e ricche di oggetti, uso del collage, fu pari a quello dei temi. Rimaneva, denominatore comune, l’interesse verso cose parimenti lontane: passato e futuro.

Tra gli artisti che si incontravano alla Duemila alla ricerca della propria strada Naldi era tra i più solleciti a trasferire le intuizioni nel lavoro pratico, era attivo con mostre personali e in quelle di gruppo ( per esempio l’itinerante “Oggi a Bologna”). La critica ha scritto molto su questa stagione “spaziale” di Naldi, riconosciuta come la più feconda e quella che lo ha reso noto in Italia e all’estero, ha rilevato una rielaborazione originale di elementi surrealisti, razionalisti, costruttivisti e del futurismo dinamico, cui aggiungerei influssi della pop – art, che in quegli anni andava affermandosi: ne risultò una pittura del tutto nuova.

Ponendo l’attenzione, all’ora di moda, sulle angosce di fronte al rapido sviluppo tecnologico, si è visto in questa pittura un allarme per le sorti dell’umanità; oggi per la sua creatività, arditezza, chiarezza, possiamo apprezzarne l’altro versante: il richiamo all’avventura verso nuove frontiere.

Quella di Naldi fu una preveggente elaborazione di immagini dal cosmo, di macchine di ingegneria spaziale al passo con la fantascienza più geniale, quella che di lì a poco avrebbe prodotto film come “2001 Odissea nello spazio”, e valore non solo immutato, ma rafforzato nel tempo trascorso, conservano le sue visionarie e fantastiche intuizioni che ancora sorprendono per inventiva e freschezza.

Foto di Venino Naldi ad una sua mostra